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‘I migranti di San Ferdinando rifiutano i pasti caldi. Li avrei rifiutati anch’io’

14 Apr 2020 | Cultura e Società

di NADIA CRUCITTI, scrittrice 

L’intervento della scrittrice Nadia Crucitti

Vi ricordate di “mamma Africa”? I giovani migranti ammassati in baracche fatiscenti e fabbriche in disuso chiamavano così Norina Ventre, in segno di stima e affetto, e accettavano con gratitudine i pasti caldi preparati da lei e da altre signore che vedevano quei giovani come figli e fratelli in difficoltà.
Io sono certa delle buone intenzioni del vicepresidente della Giunta regionale Nino Spirlì e di tutti quelli che hanno organizzato questo bel gesto di solidarietà, però… i migranti usano i telefonini non solo per tenersi in contatto con le famiglie, li usano anche per seguire i telegiornali, la politica nazionale e quella delle regioni che li ospitano per capire se potranno sentirsi o no al sicuro. E che cosa avranno pensato di questo gesto da parte di una regione dove governano Fratelli d’Italia e Lega che hanno fatto chiudere i porti, pronti ad abbandonare i migranti in mare o a lasciarli prigionieri nei lager libici tra fame e torture? Quindi, al loro posto avrei rifiutato anch’io, e vi dico perché.
A Rosarno, i migranti vivono ancora oggi -a distanza di 10 anni dalla violenta protesta del 2010- senza acqua corrente, senza elettricità, senza bagni e senza fogne e, oltre ai cumuli di spazzatura da cui sono circondati, se piove vivono anche nel fango. Per quelli che stanno in tenda o nel container c’è stato un piccolo miglioramento, ma si tratta di poche centinaia di persone, e i migranti sono migliaia. E le malattie di cui soffrono sono dovute proprio alle terribili condizioni di vita: infiammazioni delle vie respiratorie, patologie osteoarticolari e patologie dell’apparato digerente perché se stai un’intera giornata a raccogliere agrumi -per pochi euro- e poi torni in quella baracca sporca, cadente, al freddo, con poco cibo, se non sei Hulk o Superman ti ammali.
A questa situazione inumana si aggiungono le violenze dei soliti deprivati mentali che sparano contro di loro di notte -la rivolta del 2010 nacque dalla rabbia di simili episodi- e le morti evitabili: incendi nelle baracche con quattro migranti morti carbonizzati, e il giovane sindacalista Soumalia Sacko, ucciso mentre cercava pezzi di lamiera in un’ex fornace “abbandonata” per costruirsi una baracca.
Detto questo, se io fossi una migrante, umiliata, sfruttata, abbandonata dalle istituzioni, costretta a vivere in un luogo fetido e fatiscente, mi porrei delle domande:
*riguardo alle misure di prevenzione -distanziamento sociale, quarantena, igiene- per noi funziona soltanto la quarantena. Distanziamento sociale e igiene zero, visto che in una baracca stiamo ammassati anche in dieci e viviamo tra spazzatura e liquami, e senz’acqua, e allora perché non mi danno un tetto vero sulla testa, con l’acqua per potermi lavare?
*perché non mi forniscono guanti e mascherine?
*perché non mi portano la spesa come fanno con gli altri che ne hanno bisogno o perché non mi danno buoni da spendere al supermercato e buoni per le medicine?
E qui nasce il rifiuto. Perché quando si è sempre umiliati e sfruttati si diventa arrabbiati, e la rabbia ti porta a vedere tutti i bianchi come potenziali nemici. Certo, poi fai la distinzione perché come “mamma Africa” ce ne sono altri che ti rispettano, che si prendono cura di te, che cercano di alleviare la tua sofferenza fisica, che da anni e anni chiedono inutilmente che vengano rispettati i tuoi diritti. Ma le persone che si sono presentate non le conosci e sei stanco di accettare carità temporanea: un piatto di pasta e di carne, poi torni nel marciume.
Ma che regione “disonorata” è quella che da anni lascia in condizioni così drammatiche esseri umani? Ho scritto “priva di onore” e sì, io posso dirlo perché amo la Calabria, per lei ho scritto pagine e pagine, quindi sì, dal profondo del mio amore posso dire che solo una terra priva di onore lascia che esistano buchi di civiltà come questo.
E forse i migranti di Rosarno hanno rifiutato anche per paura del contagio visto che, per fortuna o per immunità, finora non si è verificato nessun caso -d’altronde anche nel Sud non si era verificato niente e forse niente sarebbe accaduto se non ci fossero stati i rientri dal Nord, rientri sui quali sono stata d’accordo, e però tutti avrebbero dovuto mettersi in quarantena da subito invece di agire da sciocchi superficiali; l’hanno fatto dopo, ma ormai…-
Hanno paura del contagio perché sanno che la sanità di questa regione è disastrata, e se a questo aggiungiamo che loro sono migranti e noi no, avranno anche paura di essere emarginati. Voi dite di no? Leggete che cosa dice Daniele Laurenzi, sindaco di Nereto, a proposito del suo povero conterraneo Luca Di Nicola, di appena 19 anni, morto a Londra per il Covid-19 e curato a casa, a distanza, con il paracetamolo: “Noi in Italia avremmo curato un inglese come un italiano… Luca invece stava male da giorni e si sono limitati a delle telefonate”. Quindi il sindaco pensa che Luca, essendo straniero, non sia stato curato con l’attenzione che avrebbe ricevuto invece un inglese. Può darsi non sia vero, può darsi sia semplice incompetenza del medico inglese che lo seguiva, superficialità, oppure davvero, dovendo scegliere, scegli di interessarti principalmente di chi appartiene alla tua stessa comunità.
I migranti sono neri: che cosa dovrebbero pensare loro? Se mi tratti da bestia e c’è un solo posto libero in ospedale, chi salvi? Me o il ragazzo bianco che magari abita anche vicino a casa tua e tu conosci i parenti e gli amici?
Un medico davvero tale tenterebbe di salvarli tutti e due o, non potendo farlo, sceglierebbe in base alle possibilità di sopravvivenza, ma non è detto…
Oppure, forse, spezzando la catena di solidarietà che si era creata tra la Protezione Civile Regionale, i Comuni, la Caritas, e altre organizzazioni, hanno voluto attirare l’attenzione sulle loro condizioni con una protesta eclatante.
E parafrasando Confucio con la sua giusta massima: “Dai un pesce a un uomo e lo nutrirai per un giorno; insegnagli a pescare e lo nutrirai per tutta la vita”, io dico no al pasto caldo caritatevole, piuttosto regolarizzate i migranti e date loro un salario decente in modo che possano prendere in affitto una vera casa, visto che tra l’altro stiamo parlando di persone sfruttate, che lavorano onestamente spaccandosi la schiena tutto il giorno. E se questo davvero si vuole fare a fine emergenza, nel frattempo bisognerebbe sistemarli in qualche struttura idonea, se non tutti perché adesso è impossibile, almeno i più deboli. E bisognerebbe anche distribuire dispositivi di protezione a tutti.
E se qualche razzista pensa tanto chissenefrega di loro, vada a guardarsi “Cose dell’altro mondo”, il film di Francesco Patierno -liberamente ispirato dal film “Un giorno senza messicani”- e capirà quanto siano importanti queste persone per la nostra economia. Si tratta di una commedia, molto intelligente, con Diego Abatantuono nei panni di un piccolo imprenditore veneto becero e razzista che un giorno tuona dalla sua televisione privata contro gli stranieri invocando uno tsunami purificatore che se li porti via tutti. Cosa che l’indomani avviene. Ma con la scomparsa degli extracomunitari va in crisi buona parte della società, si fermano le fabbriche, i lavori agricoli e la gestione degli anziani e dei disabili. Dimenticavo il finale: l’imprenditore razzista, sposato con un’italiana, è segretamente innamorato di una ragazza di colore che scompare come tutti gli altri, e il film si chiude con lui che parte per Nairobi per andare a cercarla.
E a proposito di disabili mi è venuto in mente il giorno di anni fa quando con la mia amica abbiamo visto “Quasi amici” e lei mi ha raccontato che suo cugino Dominique le aveva detto che era la storia dello zio di sua moglie Alexandra. Nel film, e quindi nella realtà, Philippe Pozzo di Borgo è diventato tetraplegico in seguito a un incidente con il parapendio -da allora ho deciso di smettere anche io con i voli- e ha tentato il suicidio senza riuscirci, così si rassegna all’idea di avere un badante. Philippe è un nobile di antica casata, miliardario, uomo colto, raffinato, elegante, eppure tra i tanti che si presentano sceglie Driss -nella realtà l’algerino Abdel Sellou- ragazzo di 21 anni, scuro di pelle, appena uscito dalla galera e che vive di espedienti. Driss con la sua incoscienza si rivela una persona che riempie Philippe di stimoli facendogli dimenticare la sua disabilità, diventano amici e i loro destini infelici si capovolgono. E siccome il film racconta una storia vera vi dirò com’è finita nella realtà: Philippe ha trovato l’amore, e anche Abdel Sellou si è sposato ed è diventato un piccolo imprenditore. Funziona così nella vita: amore e amicizia non sono programmabili, nascono sia che tu sia d’accordo, sia che tu sia contrario, e non c’entra né colore della pelle, né nazionalità e nemmeno sesso e religione, perché sono sentimenti e contro i sentimenti non puoi fare nulla. Avvengono e basta.

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